giovedì 4 dicembre 2014

Il compenso del CTU lo paga anche chi ha vinto la causa, salvo rivalsa nel caso di condanna alle spese

Capita di sentir dire che troppo spesso i giudici compensano le spese processuali; una delle critiche che si muove maggiormente all'organizzazione della giustizia, infatti, è proprio questo: “che senso ha far causa se alla fine, pur avendo ragione, ci rimetto i soldi per l'avvocato?
La questione è tanto sentita che non è raro che il Legislatore intervenga per porre un freno alla discrezionalità dei giudici nell'applicazione della norma che consente l'applicazione della così detta compensazione legale delle spese, si veda in tal senso la recente legge n. 162/2014 che ha convertito in legge il decreto sulla giustizia civile.
In questo contesto, tra le altre, s'inseriscono le spese per il compenso dovuto al consulente tecnico del giudice.
Il consulente, è bene ricordarlo, è un ausiliario del giudice che lo aiuta a valutare le prove fornite dalle parti ed è nominato quando per tale valutazione sono necessarie specifiche competenze tecniche che il giudice non possiede.
Si pensi, alla necessità di un consulente nelle cause aventi ad oggetto la responsabilità medica, oppure a quelle inerenti danni da infiltrazioni e simili.
Chi paga il compenso del consulente? Anche qui la risposta non è univoca ma bisogna dire: dipende.
Vediamo perché e nel farlo prendiamo spunto da una decisione, la n. 23522 resa dalla Corte di Cassazione il 5 novembre 2014.
Innanzitutto, la sentenza ricorda la funzione dell'intervento del CTU, affermando, sulla scorta di copiosa giurisprudenza, “che l'attività del consulente tecnico di ufficio è finalizzata alla realizzazione del superiore interesse della giustizia (da ultimo: Cass. 17 gennaio 2013, n. 1023; Cass. 8 settembre 2005, n. 17953), sicché bene il relativo compenso è posto a carico solidalmente a carico di tutte le parti, restando solo i rapporti interni tra queste regolati dal principio della soccombenza (Cass. 27 gennaio 2012, n. 1183; Cass. 30 dicembre 2009, n. 28094; Cass. 15 settembre 2008, n. 23586)” (Cass. 5 novembre 2014 n, 23522).
In questo contesto, quindi, è necessario inquadrare il rapporto tra due provvedimenti giudiziari:
a) il decreto di liquidazione del compenso del CTU emesso in corso di causa;
b) la sentenza che definisce in giudizio.
“Il decreto di liquidazione del compenso al c.t.u., nella parte in cui pone il medesimo a carico di entrambe le parti o di una di loro ed interviene nei rapporti tra l'ausiliario ed una o tutte le parti in causa – dice la Cassazione nell'ordinanza n. 23522 – non può affatto dirsi implicitamente assorbito dalla regolamentazione delle spese di lite operata ai sensi dell'art. 91 cod. proc. civ., che regola il diverso rapporto tra vincitore e soccombente, sicché si ha la seguente alternativa:
- o quest'ultima interviene ex novo sulla liquidazione, eventualmente modificando il provvedimento originario con la previsione di un obbligo di anticipazione a carico di una soltanto delle parti, ma allora deve farlo in modo soltanto espresso;
- oppure nulla pronuncia al riguardo ed allora conserva validità ed efficacia, nei confronti di tutte le parti, il provvedimento originario anche nella parte in cui esso ha posto il pagamento del compenso a carico di costoro senza differenziarle”.
In buona sostanza il compenso del CTU è posto:
a) a carico di entrambe le parti se la causa finisce con la compensazione delle spese;
b) a carico della sola parte soccombente se la sentenza definisce il giudizio modificando espressamente la statuizione sulle spese contenuta nel decreto di liquidazione del compenso del CTU;
c) a carico di entrambe le parti con diritto di rivalsa della parte vincitrice su quella soccombente se la sentenza definisce il giudizio condannando il soccombente al pagamento delle spese senza però modificare il decreto di liquidazione del compenso del CTU.



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